articolo de l’Unità del 16 gennaio 2003 pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 14) nella sezione “Interni”

Come la Sicilia ha espulso il grande clinico La battaglia di Marino contro il clientelismo e l’insofferenza verso «l’americano». Fuga dei cervelli. Perché, nonostante l’appello di Ciampi, nessuno ha cercato di far tornare il medico «mago» dei trapianti

di Marzio Tristano

L’unico trapianto che non gli è riuscito è stato probabilmente quello suo nel corpo sanitario siciliano: il nuovo «organo», un luminare efficiente ed autonomo in un polo medico all’avanguardia nel mondo è stato rigettato dal sistema che continua a macinare miliardi pubblici in una lenta ed inesorabile agonia. Ora che il professore Ignazio Marino, allievo del pioniere dei trapianti di fegato Thomas Starzl, studi in Gran Bretagna, formazione professionale a Pittsburgh, negli Usa, è andato via sbattendo la porta, e nessuno si è mosso per farlo restare, come aveva chiesto il presidente della Repubblica Ciampi, sono tutti d’accordo: senza di lui l’Ismett, fiore all’occhiello della sanità siciliana, 120 trapianti in 4 anni con una sopravvivenza del 90 per cento, 230 dipendenti ad alta specializzazione, è destinato a diventare uno dei tanti stipendifici siciliani per impiegati in camice bianco. La Sicilia del «non fare», quella che «scoraggia perfino le illusioni», come disse un siciliano che la guardava da lontano, Enrico Cuccia, ha vinto ancora una volta: non è importante quello che fai, è il suo credo, ma quello che riesci a non far fare al tuo vicino. Con Marino, medici, burocrati, politici, ci sono riusciti benissimo, fino a costringerlo ad andar via. E dire che l’osso era duro: in Sicilia Marino era arrivato nel ’97 con una storia professionale di tutto rispetto ed un sogno: creare nell’isola il primo centro di trapianti, aperto ai Paesi del mediterraneo. Il know how arrivava dall’America, i soldi dalla regione: Claudio Fava, allora segretario dei Ds in Sicilia, lo portò a Roma da Rosy Bindi, ministro della Sanità, che si innamorò del progetto, e garantì il «via libera». Erano gli anni del centrosinistra, il chirurgo confidò in un’intervista: «vengo perché si è capito che la sanità deve ruotare attorno al paziente e non al medico, che non può avere il piede in due scarpe, quella pubblica e quella privata, che, sul modello Usa, devono essere in competizione». Venne portando con sé gli arnesi del suo sogno impossibile: trapiantare nel corpo siciliano corroso da metastasi metodi e sistemi di un’efficienza appresa oltre l’Atlantico, nei corridoi lindi dell’Università di Pittsburgh. Scelse medici ed infermieri e li spedì per un anno negli Usa a farsi le ossa professionali, organizzò i padiglioni dentro l’ospedale Civico secondo il modello americano, divenne direttore sanitario e amministratore tenendo rigorosamente fuori della porta nepotismi e clientele. La Regione pagava, e molto, ma i risultati non tardarono ad arrivare: nel 2001, secondo i dati diffusi dal centro nazionale trapianti, la Sicilia registrò il record di incremento di interventi: 13 prelievi nel 2000, 45 donazioni effettive nel 2001, per un totale in quattro anni di oltre 120 trapianti con una curva di sopravvivenza a 32 mesi dell’87 per cento per il fegato, paragonabile a quella delle cinque migliori strutture del mondo. La Sicilia nell’olimpo sanitario mondiale, dove non era mai stata. Diminuiti i viaggi della speranza dei siciliani, crescevano le prenotazioni in lista d’attesa da tutta Italia. E anche da fuori. La leggenda racconta dell’emiro arabo operato all’Ismett la cui donazione consentì all’ospedale margini di manovra finanziaria ancora più ampi e nuovi investimenti interni. Abile nel promuovere una sanità rivoluzionaria per il pachiderma siciliano, fino a quel momento fermo a guardare i successi del giovane chirurgo, Marino portava il suo volto serio e professionale nelle reti nazionali e perfino a Porta a Porta, esportando, accanto ad un’indubbia efficienza, l’immagine di un’alta coerenza etica che lo portò in rotta di collisione altre due volte con il sistema: quando si rifiutò di affiancare il cardiochirurgo Carlo Marcelletti nell’intervento, poi fallito, di separazione delle due gemelline siamesi peruviane, Marta e Milagros, sostenendo che era immorale decidere a tavolino la morte dell’una per salvare la vita dell’altra, ma soprattutto quando, il 17 luglio 2001, forzando pragmaticamente la mano, compì il primo intervento in Italia di trapianto su sieropositivo, attirandosi le ire del ministro della Sanità Sirchia. Marino pensava agli Usa, dove per salvare la vita di un uomo ad un medico non è richiesta un’autorizzazione ministeriale, e la sua «forzatura» servì a vincere una battaglia culturale. Sirchia infatti si è arreso: dopo Marino altri centri italiani hanno chiesto al ministero di intervenire su sieropositivi, e grazie al chirurgo le norme sono state corrette e adesso la procedura è ammessa. Il successo alimentò invidie e gelosie che crebbero di pari passo con il mutato scenario politico: e così, dopo avere brindato alla vittoria elettorale, la Sicilia del 61 a zero bussò alle porte dell’Ismett. Ma Marino fu irremovibile: raccomandazioni zero, qui comanda solo l’efficienza. Il sistema cominciò progressivamente ad isolarlo: si moltiplicarono i controlli amministrativi a tappeto, la burocrazia iniziò a rallentare gli iter, alla lettera di Marino che chiedeva a decine di docenti l’invio degli studenti migliori risposero solo in tre senza segnalargli alcun nome. Le lamentele si fecero pressanti. Costi fuori controllo, dissero i medici, l’Ismett drena troppe risorse rispetto agli esiti. Sanitari e infermieri strapagati, bilanci fuori controllo, strutture costosissime. E i più accaniti furono proprio i suoi vicini di casa del Civico, Giovanni Mercadante, primario di radiologia e deputato regionale di Forza Italia, e Mario Re, primario di rianimazione. Insorse anche l’Università: «non esiste un interscambio formativo», tuonò il Preside di Medicina, Elio Cardinale. Ma il refrain più ripetuto era: è efficiente, ma costa troppo. In una terra dove l’80 per cento degli ospedali di media e bassa patologia andrebbe chiuso (efficienza prossima allo zero, disastroso rapporto costi -benefici), l’Ismett era diventato uno scandalo finanziario. Il valore aggiunto della sanità siciliana era diventato soltanto una voce pesante della sanità mangiasoldi, così trasformato dallo stesso sistema che ha «punito» il manager della più grossa azienda sanitaria colpevole di un clamoroso buco di bilancio «promuovendolo» sul campo direttore sanitario di uno dei più importanti ospedali di Palermo. Il sistema, ormai, si era chiuso a riccio. E aveva iniziato a stringere Marino in un angolo, opponendogli un’altra «prima donna». Di lui Marcelletti dirà: «voleva fare l’americano in Sicilia», come dire: non aveva capito nulla. Per poi aggiungere: «la Sicilia è una terra che mi ha dato molto, una fiducia che io cerco di contraccambiare». Fino a quando la linea dei baroni della medicina siciliani non è stata fatta propria dal ministro Sirchia: «L’Ismett costa troppo, è utile, d’avanguardia, ha dato buoni risultati ma ad un prezzo che in Italia non è sostenibile», ha detto il ministro quando Marino ha deciso di fare le valigie. Parole tombali sul sogno americano, che smentiscono l’appello di Ciampi, teso a far tornare il chirurgo volato negli Usa. Partito Marino, resta in piedi il progetto, giurano all’Ismett. Ma tutti, ormai, sanno che diventera’ altro, senza il chirurgo- manager che lo aveva proiettato in alto, nel mondo.

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ISMETT: la battaglia di Marino contro il clientelismo
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